Cattive abitudini di chi programma e come evitarle

Oggi abbiamo una rock star della sicurezza, Stefano Pancari.
Stefano, perchè ti ho presentato così? Di che cosa ti occupi?

Beh, effettivamente è così che mi chiamano da un po’ di tempo a questa parte. Io mi occupo di salute e sicurezza da 20 anni ormai e oggi sono non solo presidente di una società di consulenza e formazione su questi temi, Sfera Ingegneria, ma sono anche direttore editoriale della webzine “Rock’n’Safe” perchè cerco di portare la passione di dei valori della Safety all’interno delle aziende, partendo dalle direzioni e arrivando a tutti i lavoratori. Ma non è sempre stato così. Quando cominciai 20 anni fa, lo feci col migliore degli spiriti perché pensavo che avrei potuto portare davvero migliorie nella qualità della vita delle persone. Invece, gli imprenditori che incontravo non sempre erano sensibili a questi temi (e non solo gli imprenditori, anche i lavoratori) e francamente, avendo una natura creativa, piuttosto che fare il consulente burocrate che fa rispettare leggi e regole, mi sarei anche dato ad altro. Fino a quando, proprio durante un concerto degli U2 – io sono un amante della musica, in particolare del rock – in un momento di pathos, ho avuto come un flash. Perché, andando oltre il maxischermo, l’eccentricità di Bono Vox e questi palchi giganti, dietro alla musica di valore c’è sempre un forte messaggio. Se ci pensiamo, il rock dagli anni 50, da Elvis fino ai giorni nostri, è stato veicolo di grandi cambiamenti culturali e quindi, tornando a quello che facevo io, mi sono detto: “Chi spontaneamente vuole ammalarsi o farsi male? La salute e la sicurezza sono valori dentro ciascuno di noi, però poi nel quotidiano facciamo tutt’altro, comportandoci in modo pericoloso. Il motivo qual è? Il rocker che professa questi temi li veste in maniera poco interessante, molto sterile”. Ecco che da quel giorno ho iniziato a studiare anche comunicazione, leadership, crescita personale, perché sono fermamente convinto che se, comunicate in modo diverso, la salute e sicurezza  posso entrare dentro le persone, prima a livello emotivo e poi a livello razionale, e questo ci ha portato a collaborare oggi con oltre 300 aziende e abbiamo formato più di 7000 persone. Ti dico la verità: oggi, quando mi occupo di consulenza e formazione, lo faccio divertendomi, e non c’è cosa più bella da fare nel lavoro!

E siete infatti anche consulenti di Develer!

Sì, io sono il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e per me è un piacere. Una realtà come Develer deve essere semplicemente accompagnata perché ha una visione veramente fantastica. Io questo la faccio presente a tutto il team, senza piaggeria. Ci sono una cura e un’attenzione sincere nei confronti della persona che dovrebbe essere professata in tante altre realtà, dove invece questa cosa manca.

Naturalmente, incentrandomi sul benessere inteso come salute e sicurezza, cerco di portare il mio contributo a quello che l’azienda già sta facendo.

Io ti ringrazio tantissimo per i complimenti, e direi adesso di focalizzarci sulla sicurezza per quanto riguarda il settore informatico.
Quindi sviluppatrici e sviluppatori che cosa dovrebbero fare? Quanto ci preoccupiamo di salute e sicurezza nei nostri ambienti?

Io ne ho conosciute tante di persone nell’ambiente, perché fin dall’inizio ho seguito diverse aziende informatiche in tutta italia. Abbiamo un problema di fondo, che però è gestibile: il problema è che pensiamo sempre che la sicurezza sia confinata alle attività pericolose per antonomasia, tipo i cantieri. In realtà, tutto ciò che noi facciamo nella vita ha in sè dei rischi, anche se ovviamente lavorare a 50 m di altezza piuttosto che da una poltrona al computer sono due cose diverse, ma purtroppo, statistiche alla mano, anche chi lavora di fronte a una postazione cosiddetta di “videoterminalista” può avere tutta una serie di complicazioni se non usiamo le dovute attenzioni. E badate bene: le dovute attenzioni le applichiamo non tanto perché dobbiamo rispettare delle regole date dalla legge o dall’azienda: basta mettere in pratica il buon senso per aver cura si sè. 

Sappiamo bene che la postura di una persona al computer è strettamente connessa allo stato di salute e, poichè il nostro cervello ci inganna spesso, noi abbiamo la percezione di stare comodi in posizioni che invece vanno a gravare sul nostro sistema osteoarticolare in modo tale che, magari, in un giorno può succedere nulla, ma il protrarsi di quell’abitudine può portare complicazioni che poi si riflettono sul nostro quotidiano. Io credo che, tra chi sta leggendo, ci siano molte persone che soffrono di mal di schiena in modo più o meno interessante e sappiamo bene che, purtroppo, quando noi abbiamo problemi alla colonna vertebrale di varia origine, poi tutta una serie di altre attività, a partire dallo sport o, per chi è genitore, giocare con i figli, vengono limitate. Quando ti ritrovi in questa condizione, se poi ripensi al perché oggi stai male, magari ripensando alla postura, ti viene in mente che qualcosa di più corretto si poteva fare.

Però la salute e la sicurezza – questo ormai fa parte della cultura dagli anni 90 – è fatta soprattutto di prevenzione, è questo su cui dobbiamo porre la nostra attenzione. Vi riporto un esempio pratico: proprio io, non molto tempo fa, ho lavorato dal salone di casa mia disteso a pelle di leone su una sedia che non era esattamente da lavoro. Dato che tenevo il mouse lontano, quindi molto interno rispetto alla scrivania, ho strusciato tutto il giorno l’avambraccio sulla scrivania. La mattina dopo mi sono svegliato con un gomito grosso quanto il mio ginocchio perchè lo sfregare continuo dell’articolazione sul piano di lavoro mi ha creato una borsite, e quindi un’infiammazione che ha portato a gonfiare il muscolo e creare il liquido. Non auguro a nessuno poi la cura successiva, perché al di là di non poter muovere il braccio, poi ho dovuto fare tutta una serie di infiltrazioni. Questo è derivato da un’azione stupida che ho fatto e mi sono rovinato le due settimane successive. Questo giusto per fare un esempio.

Io professo inoltre che, quando parliamo di salute, non parliamo solo di salute fisica, ma anzi proprio nel settore dell’informatica, l’aspetto saliente deriva dalla nostra salute psicologica. E badate bene, c’è proprio una legge che dice che il datore di lavoro deve prendersi cura del benessere psico-fisico delle persone e, su questo tema, ecco che si apre un mondo, oggi più che mai, visto che ci ritroviamo in una situazione particolare come lo smart working.

Quindi Stefano, per sintetizzare, quali sono le cose che non vanno fatte assolutamente? E come dovrebbero stare un programmatore o una programmatrice perché tutto quello che ci hai raccontato non si verifichi?

Innanzitutto dobbiamo parlare dell’ambiente in cui lavoriamo. Se è un’azienda, è organizzato dall’azienda stessa, se invece ci ritroviamo a casa, dobbiamo avere delle piccole attenzioni, non dando per scontato che i problemi accadano solo agli altri.

Dobbiamo avere una scrivania che sia di colore chiaro e opaco, dice la norma. Questo perché? Perché noi abbiamo un sistema oculare che è un grande ingegno di madre natura, però, così come se fossimo macchine fotografiche, dobbiamo fare molta attenzione a quelle che sono le nostre lenti. Noi non ci rendiamo conto, ma ogni ora mettiamo a fuoco decine di volte e questo porta a uno sforzo del bulbo oculare. Se noi utilizzassimo superfici di lavoro scure, avremmo uno sforzo eccessivo della nostra messa a fuoco. Questo nel medio termine – e quindi anche solo in qualche giorno lavorativo – comporta una serie di complicazioni che all’inizio si manifestano come un’irritazione degli occhi, ma nel lungo termine hanno conseguenze che ci portano di filato dall’oculista. 

La necessità della superficie opaca è riconducibile all’illuminazione dell’ambiente in cui ci troviamo, amica fino a che non facciamo in modo che diventi una nemica. Questo accade con una superficie lucida perché i riflessi della luce inevitabilmente rimbalzano. Magari non ce ne accorgiamo perché abbiamo sempre gli occhi sul monitor, ma abbiamo una continua irradiazione sul bulbo oculare e anche questo può portare complicazioni. 

Parlando proprio di fonti di illuminazione che possono essere di origine naturale come le finestre o di origine artificiale, come qualsiasi lampada a soffitto o meno, dobbiamo fare in modo che esse non siano mai, e ribadisco mai, sul nostro cono visivo. Questo vuol dire che non devono essere né dietro il monitor, sennò si creano dei fenomeni di chiaro scuro, nè dietro alle nostre spalle, nel qual caso si creano fenomeni di riflessione.

Quindi, ricapitolando, bisogna avere una scrivania conforme, e oggi se ne trovano facilmente in giro, e orientata in maniera tale che le fonti di illuminazione siano laterali.

Sfato un mito: la luce da scrivania non è una cosa buona. Perché, soprattutto nelle ore del tardo pomeriggio o d’inverno, se noi abbiamo illuminata la nostra postazione di lavoro, ci scordiamo di tutto il resto, e rischiamo di trovarci in una stanza buia con una forte illuminazione sulla scrivania. Anche qui, passare da visualizzare cose molto luminose a spazi scuri va a sforzare fortemente la vista. 

E guardate, io sono un rocker, mi piace vivere la vita e assaporarla bene, non sono vezzi: persone purtroppo che hanno problemi di vista o del sistema articolare ce ne sono tantissime ed è un peccato piangere poi sul latte versato.

Quindi queste sono le accortezze minime per quanto riguarda l’aspetto più fisico, ma immagino che interesserà a tutti parlare anche dell’aspetto psicologico.

Sì, prima di passare a quell’aspetto, una domanda al volo sui monitor. Ormai sono tutti a norma o ce ne sono alcuni che vanno assolutamente evitati?

Allora, ai tempi in cui cominciai io a lavorare, quindi con i monitor a tubo catodico, avevamo inizialmente delle rotelle, che poi diventarono pulsanti, che ci permettevano di regolare il contrasto, la luminosità, ecc. Oggi per i monitor andiamo a disquisire solo sulle dimensioni perché abbiamo una qualità video veramente alta. Il livello di luminosità viene regolato dall’utente e anche in questo caso dobbiamo proporzionarlo alla luce che abbiamo nell’ambiente, cioè la stessa cosa che fa in automatico qualsiasi smartphone: se siamo fuori alla luce aperta, aumenta la luminosità, quando siamo al chiuso invece cala la luce e quindi non è consigliabile avere una fonte abbagliante. 

E quindi le famose pause dallo schermo: vanno fatte o non vanno fatte? Con quale frequenza?

Qui si entra nel campo più psicologico: la risposta è sì, la legge dice che, date 8 ore standard continuative, ogni due ore la persona dovrebbe fare un break di un quarto d’ora, che poi la norma stessa specifica che il break non è per forza la pausa caffè, ma è semplicemente un’interruzione temporanea dell’interazione che noi abbiamo con il computer. E’ sempre stato così, ma oggi più che mai che lavoriamo da casa e stiamo ore e ore in trance davanti al computer, questo potrebbe non essere sempre produttivo e salutare, perché si arriva a un certo punto che iniziamo a lavorare per inerzia. Ma non solo la stanchezza del bulbo oculare, ma anche quella a livello mentale porta a ledere i nostri nervi.

Prendiamoci cura del nostro sistema nervoso, perché il nostro lavoro col cervello è un po’ come quello del liutaio, bisogna saper tirare bene le corde. Uno strumento, per suonare bene, deve avere le corde tese, e questa è l’adrenalina: lo stress di per sè è una cosa buona, ci mantiene sul pezzo. Ma se noi abbiamo un ritmo di lavoro in cui non facciamo mai una pausa, ecco che, se il liutaio tira troppo le corde, alla fine si spezzano e lo strumento non funziona più, e questo è il fenomeno che ben conosciamo del burn out. Lo sa bene chi fa sport: se uno si allena tutti i giorni al massimo, sappiamo bene che arriverà un giorno all’improvviso che il nostro corpo e i nostri muscoli smetteranno di rispondere perché abbiamo portato in iperstress il nostro organismo. A livello mentale succede la stessa identica cosa: magari siamo sul pezzo e non me ce ne rendiamo conto – e non parlo di una giornata, parlo di un lungo periodo – ma a lungo andare arriverà un momento in cui crolliamo e quel crollo vuol dire che per un po’ di tempo non riusciremo ad avere performance adeguate e magari abbiamo un obiettivo in scadenza. Quindi la raccomandazione, proprio per garantire le migliori performance possibili e il nostro equilibrio psicologico, è quella di dosare intelligentemente le pause: dare un po’ di spazio a se stessi, serve per tirare il fiato. E dobbiamo essere noi, e non la legge, consapevoli di quando è il momento giusto per fare quell’interruzione. Ricordiamoci che per raggiungere un buon livello di concentrazione occorrono 7 minuti: questo vuol dire che se io vengo interrotto o mi interrompo frequentemente, poi mi occorreranno di nuovo 7 minuti per ritornare a un nuovo standard di concentrazione. Per performare bene, quando siete in una fase progettuale, escludete per X tempo (decidete voi se 20-30-40 minuti) interazioni esterne come le notifiche dei cellulari, le email, le chat, perché se voi lavorerete in quel lasso di tempo concentrati davvero, andrete a risparmiare un sacco di tempo.

Immaginate, invece, quando siete a lavoro e “siete multitasking”: interagite col collega per qualcosa, rispondete alle email, alle chat, alle videocall, venite distratti dal cellulare: quel lavoro di 40 minuti si dilata a volte in ore, mentre rimanendo concentrati su quello che facciamo, noi ottimizziamo i tempi, otteniamo risultati e magari arriviamo a fine giornata che lavoriamo anche qualcosa di meno perchè il nostro obiettivo è raggiunto.

Stefano, stai dicendo cose interessantissime e ci vengono in mente un sacco di domande. Te ne faccio due al volo. La prima: tu hai parlato di burn out: c’è qualche indicatore che ci può far capire che sta arrivando e che ci può far invertire la tendenza, oppure arriva all’improvviso ed è la fine? 
La seconda: si parlava di pausa e di sport. L’alimentazione può entrarci qualcosa? Si può intervenire anche a livello di alimentazione?

Ti rispondo alla prima. Sicuramente, sempre ci sono dei campanelli di allarme, è che noi li ignoriamo o sottovalutiamo. Quali sono? Una crescita della tensione, quindi facciamo attenzione a come ci rapportiamo agli altri, come comunichiamo, perché se cominciamo a vedere che siamo un po’ più irascibili, oppure anche se non manifestandolo all’esterno, abbiamo un dialogo interno che si arrovella sulle cose, che può succedere ogni tanto, ma se succede sempre più spesso, quello sicuramente è un indicatore. Se la nostra testa non esce mai dal loop del lavoro, quello è un altro indicatore; se tutto diventa più piccolo rispetto a quello che dobbiamo fare, quello è un altro indicatore.

Ora, faccio una precisazione: ci sono dei momenti in cui scegliamo di dedicarci interamente al lavoro perché magari abbiamo una scadenza importantissima, ma determiniamo i tempi. Quando invece andiamo alla deriva verso il burn out? Quando non abbiamo un limite al picco di stress.

In questi casi, la nostra unica medicina deve essere darsi ad attività che niente hanno a che fare col lavoro, quindi nel caso del vostro settore bisognerebbe scollegarsi completamente dalla tecnologia e magari dedicarsi alla natura, switchare completamente, ma purtroppo con gli smartphone siamo sempre connessi, e questo non è producente nè per la persona nè per l’organizzazione perchè a lungo andare, stare sempre connesso con il lavoro, non dà benefici a nessuno.

Per quel che riguarda l’alimentazione, pur non essendo un nutrizionista, di sicuro il fatto di avere una vita sedentaria, ci porta a una riduzione incredibile del metabolismo. In tanti abbiamo il contapassi e vediamo come si riducono, soprattutto in questo periodo che stiamo vivendo anche lo smart working, le possibilità di bruciare calorie. Dobbiamo nutrire il nostro organismo con sostanze che ci diano un’energia “buona”: si raccomanda spesso di prendere della frutta secca, ma anche lì la frutta secca non vuol dire avere un’insalatiera piena di mandorle e noci perché comunque sono ultra caloriche. Però, per esempio, la mandorla sgusciata è uno dei migliori energizzanti, perché riesce a dare tantissima energia in pochissimo tempo, visto viene assimilata rapidamente dal nostro corpo.

Guardate, mi è capitato di notare che in alcuni giorni di smart working sono arrivato a malapena a 1500-2000 passi, quando sappiamo che il minimo sindacale per tenersi in buona salute sono i famosi 10000 passi al giorno. Ecco, andare a monitorare questi aspetti, anche con dei contapassi, ci fa capire quanto potrebbe essere utile fare una pausa e scendere sotto casa, magari facendo le scale – quindi anche micro abitudini che possono migliorare lo stile di vita – e farci una passeggiata. Meglio sarebbe avere uno slot dedicato all’esercizio fisico, perchè quello detto finora serve per mantenerci un minimo in tono. Se invece vogliamo mantenerci performanti, dovremmo mettere nel nostro planning giornaliero almeno uno slot di almeno 40 minuti di esercizio fisico. 

Guarda, mi hai quasi convinto a togliere Slack dal cellulare! 

Un grande cambiamento per me è stato togliere le notifiche dal cellulare perchè mi rendevo conto che non riuscivo a concentrarmi sulle cose e ti dico una cosa in più: è una grande fesseria che siamo multitasking. Il nostro cervello può ragionare solo in modo sequenziale, non in modo parallelo. Questo vuole dire che invece ci sono tante persone – e in particolare le donne, che sono più portate per conformazione del cervello – che riescono a switchare da una cosa a un’altra a una velocità incredibile. Come scoprirlo? Voi iniziate a leggere un libro e mettete in tv un film che vi piace: non è vero che state leggendo e seguendo il film contemporaneamente; voi andrete dal momento in cui leggerete qualche cosa – una pagina – al momento in cui guarderete la scena del film, e quando avrete letto quella pagina, del film non avrete ascoltato nulla. Tutt’al più, tornate sul film se sentite una parola che vi attrae, un rumore. Questo ci insegna che il cervello passa da un tema all’altro. Quindi, quando siamo a lavorare, leggere una notifica whatsapp o slack, vuol dire che in quel momento stiamo togliendo l’attenzione a quello che stiamo facendo per dedicarci a qualcos’altro. E, quindi, vi ricordo che per tornare in concentrazione piena ci vorranno altri 7 minuti.

Gli slot di tempo non sono una cosa prefigurata, ma dobbiamo essere noi a sapere quando siamo nel pieno flow e terminare qualcosa, e quando poterci invece staccare e dedicarci a qualcosa di futile.

Stefano, tu hai parlato di smart working. Noi siamo sempre qui, con le cuffie o gli auricolari, su zoom o su meet o su qualunque altra piattaforma. A volte non ce la facciamo più, le cuffie sono pesanti, il volume è alto o basso… Ci puoi dare qualche consiglio?

Tocchi un argomento delicatissimo, perché noi in genere pensiamo all’inquinamento come inquinamento ambientale, ma invece, soprattutto nei grandi centri urbani, il più grande inquinamento è quello acustico.

Che cosa può portare al nostro apparato uditivo? Il grande problema che riscontriamo è uno stress all’apparato uditivo. Non voglio fare una lezione di anatomia, ma sapete tutti che quello che vediamo all’esterno è semplicemente il recettore, il padiglione, e attraverso il condotto uditivo, l’onda sonora va a impattare su una membrana leggerissima che si chiama timpano. Il timpano comincia a ondulare, trasferendo queste vibrazioni a tutto un sistema interno e la finiamo qui. 

Bombardare continuamente il nostro apparato uditivo con dei suoni, a maggior ragione con le cuffie (di qualunque dimensione, anche auricolari) porta a uno stress incredibile del nostro timpano. Voi immaginate questa membrana come se fosse la vela di una barca e viene martellata costantemente dal vento. Succede che per fortuna non abbiamo una lacerazione del timpano – quello avviene nei casi di picchi sopra i 120db, e non è il nostro caso – ma è come se gli facessimo fare i muscoli: a forza di vibrare, perde la sua elasticità e si irrigidisce. Questo vuol dire che non sarà più la vela di una barca a muoversi, ma che so, un panno pesante. Quindi, a parità di vento che batte, si muoverà di meno e sentiremo di meno. Vi ho tradotto in parole semplici quella che è l’ipoacusia, che noi determiniamo in due modi. In base al volume: se siamo in video call, ci basta percepire quello che dicono le persone, non importa tenere il volume al massimo, e in base al tempo di esposizione: da un punto di vista tecnico, c’è una formula matematica che fa un’interpolazione tra i livelli di esposizione e i tempi di esposizione.

La raccomandazione è proprio questa: le cose vanno ascoltate a livello medio, non al massimo. Se proprio dobbiamo utilizzare le cuffie per tutta una serie di ragioni, anche lavorative, a maggior ragione calibriamo le nostre pause in modo da non martellare il nostro udito, quindi dandogli un po’ di silenzio.

Certo, se poi in pausa mettiamo su un disco dei Black Sabbath a tutto volume siamo punto e a capo!

Per spiegarvi quanto noi siamo sofferenti per l’inquinamento acustico, potrei farvi l’esempio di chi di noi abita in città e va a trascorrere un fine settimana in campagna: ecco, si accorgerà che, la sera, il silenzio profondo gli dà quasi fastidio perchè noi abbiamo un sistema uditivo che si abitua facilmente ai rumori e lo dice una persona che, andando a tanti concerti, all’udito non ha voluto bene: io soffro di acufene. Per chi non lo sapesse, l’acufene è quel fischio continuo che ti porterai a vita perché non è curabile. Questo perché, quando sei abituato a certi volumi alti, non ti danno fastidio. E’ la classica questione della percezione del rischio: se io porto una qualsiasi persona che non è abituata ai grandi eventi, appena partono gli impianti, sente addirittura fastidio, cosa che non succede a una persona abituata. Stessa cosa in discoteca: avete presente quando siamo tornati a casa e ci fischiavano le orecchie? Perché abbiamo violentato per delle ore il nostro udito con impatti sonori intorno ai 100 e più decibel. Succede che, nel momento in cui quell’impatto non c’è più, per inerzia il timpano continua a vibrare: questo è poi il sibilo che noi continuiamo a sentire.

Quindi, meglio gli apparati extra auricolari che intra auricolari e tenere un volume medio, utile all’ascolto – chiedetevi sempre “ma è davvero necessario ascoltare questa cosa a questo volume o lo potrei mettere un po’ più basso?” – e, per ultimo, prendete delle pause.

Quindi, anche se è necessario per lavoro usare le cuffie, ogni tanto, quando possibile, imponetevi di mettere l’audio nativo del computer.

Ci sono studi sul tempo massimo di videocall? Qualcuno se ne è interessato?

Esistono affermati studi a livello europeo che ci dicono che le perdite di performance delle organizzazioni per colpa dello stress sono immani, ma questo stress da cosa deriva? Tante volte deriva proprio dall’organizzazione del lavoro, quindi in qualche modo è come se l’azienda facesse harakiri sulle proprie performance. 

Non è vero che la produttività viene misurata giornalmente e, soprattutto, riempire la giornata di videocall non è produttivo. Noi italiani siamo amanti delle riunioni, gli anglosassoni ci scherniscono per questo, perchè siamo sempre a confrontarci, ma poi all’azione quando passiamo? Per questo ci sono attività formative per rendere sensate le riunioni: ci sono organizzazioni che queste cose le sanno, ma altre no. Sappiamo bene che spesso basterebbero riunioni anche di soli 15’ per arrivare all’obiettivo.

Quindi, soprattutto on line, le riunioni con tempi biblici non fanno bene a nessuno, né alla persona né all’organizzazione.

Inoltre, riempire la nostra agenda di video call che magari devi staccare da una call per tuffarti subito nell’altra non è proficuo, perchè se non abbiamo il tempo di riordinare le idee sulla riunione appena fatta, mi chiedo a che cosa sia servita.

Mettere quindi volontariamente delle interruzioni tra una riunione e un’altra permette di non stare appiccicati al pc con le cuffie e quindi migliorare la condizione dell’udito, cambiare postura e migliorare il nostro stato anche a livello di stress. Non ultimo, avere meno riunioni ci permette di organizzare meglio il lavoro.

Ultimissima domanda: c’è un consiglio che vuoi darci prima di lasciarci?

Consigli ne avrei tanti. Io faccio quel che faccio perché manifesto, in modo positivo, un dissenso rispetto a uno status quo che è sempre più diffuso, che vede le persone comportarsi come se la loro salute e la loro vita siano un qualcosa di scontato; molte volte pensiamo di avere un contratto a tempo indeterminato con la vita e che le cose accadono solo agli altri, mentre le cose non accadono fino al giorno in cui accadono. Però poi quel giorno è troppo tardi.

Quindi, andando un po’ contro il buon Vasco Rossi, che pure mi piace, andare al massimo non può essere la cosa giusta da fare, se vuol dire schiantarsi contro una parete, sia fisica che metaforica. E’ di gran lunga meglio cercare di ottenere il massimo dalla nostra vita, perchè per quello che ne sappiamo, ce n’è solo una, che andare a peggiorarla o a interromperla drasticamente per delle azioni stupide. Perché, quando si va a vedere il motivo per cui  una persona non si muove più bene o si è fatta gravemente male, alla base ci sono quasi sempre comportamenti stupidi. Non esistono persone stupide, facciamo cose stupide.

Riflettere su questi aspetti e volersi un po’ più bene penso sia la raccomandazione migliore da dare per continuare a divertirci, dare il meglio di noi e frequentare quanti più concerti possibile!

Qui puoi ascoltare la puntata del podcast